"Non esiste relazione che non possa essere trasformata"

Intervista al Rabbino David Rosen sulla storia e l'attualità dei rapporti fra ebrei e cattolici

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"Non esiste relazione che non possa essere trasformata" Uno scambio “interreligioso” di sorrisi all’udienza di mercoledì 28 ottobre 2015 in Piazza San Pietro nella quale Papa Francesco ha rivolto un particolare saluto ai partecipanti della conferenza che ha ricordato i 50 anni della Dichiarazione Nostra Aetate. Qui lo vediamo insieme al rabbino Rosen e ad uno dei rappresentanti musulmani, Rasoul Rasoulipour dall’Iran.

Il Rabbino David Rosen – direttore internazionale degli Affari Interreligiosi dell’American Jewish Committee e, fra le altre cariche, membro della commissione per le relazioni interreligiose del Gran Rabbinato di Israele e suo rappresentante nel Consiglio delle Istituzioni Religiose di Terra Santa – è stato spesso presente in Vaticano ai numerosi eventi che hanno ricordato i 50 anni della Dichiarazione Nostra Aetate. In questa intervista ripercorre la storia delle relazioni fra ebrei e cattolici.
 

Quale ritiene siano stati negli anni recenti i cambiamenti più importanti che hanno avuto luogo nel campo del dialogo ebraico-cristiano? 

«In termini storici, Nostra Aetate è un testo scritto ieri e si tratta di una rivoluzione. Siamo passati da una situazione nella quale venivamo visti come rigettati da Dio, maledetti e condannati a vagare per sempre a una situazione nella quale il popolo ebraico è descritto dai Papi, nelle parole di San Giovanni Paolo II, come “l’amato fratello maggiore della Chiesa, il popolo dell’alleanza originaria che non è mai stata né sarà revocata”. Questa è una rivoluzione a livello teologico. 

Nostra Aetate è stata anche facilitata dal fatto che c’erano contesti in cui gli ebrei e i cattolici già vivevano rapporti personali di amicizia e ciò ha reso più semplice interiorizzare il cambiamento teologico. C’era anche, chiaramente, l’impatto della Shoah, una tragedia che ha spinto la Chiesa Cattolica a una seria rivalutazione delle sue relazioni con il popolo ebraico. Non credo che ci siano state altre trasformazioni nel corso della storia dell’uomo che siano state altrettanto sensazionali come questa e ciò deve essere propriamente riconosciuto. Se questa relazione che era così cronica e grave è potuta diventare così positiva e costruttiva, non esiste relazione, per quanto negativa essa sia, che non possa essere trasformata. Ciò è importante oggi per gli ebrei anche riguardo alle relazioni con il mondo musulmano.  

Un’altra considerazione importante è legata a Israele. Lo stabilimento di relazioni diplomatiche alla fine del 1993 è stato specialmente significativo perché ha poi facilitato la visita di Papa Giovanni Paolo II nel 2000. Quell’evento ebbe un enorme impatto perché oggi si legge molto meno che in passato e, di certo, la gente normalmente non legge documenti. La maggior parte degli ebrei non conosce i documenti cattolici ma le persone guardano la TV e quindi hanno visto il Papa, il capo della Chiesa Cattolica, allo Yad Vashem, in commossa solidarietà con la sofferenza ebraica, e al Kotel, il Muro Occidentale, mentre lasciava il testo della preghiera che aveva composto per la liturgia del pentimento due settimane prima a San Pietro, chiedendo perdono a Dio per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli. Questo è stato strabiliante per molti israeliani e ha permesso loro di rendersi conto che era davvero in atto un cambiamento, c’era una realtà differente».  
 

Se pensa a quali passi sono ancora da compiere nelle relazioni ebraico-cattoliche, soprattutto in Israele, qual è il primo che le viene in mente? 

«La prima cosa che mi viene in mente riguarda le responsabilità di Israele, piuttosto che quelle della Santa Sede. Infatti, Israele non ha ancora onorato tutti gli impegni presi durante l’Accordo Fondamentale concluso alla fine del 1993 con il quale venivano stabilite relazioni diplomatiche. Fra le cose non ancora compiute, ci sono la struttura legale interna della Chiesa sotto la legge israeliana e il suo statuto fiscale e a livello di tasse. Esiste dunque un debito notevole, specialmente alla memoria di Papa Giovanni Paolo II al quale i rappresentanti israeliani avevano promesso che avremmo risolto quelle questioni nell’arco di due anni dalla firma dell’Accordo Fondamentale.  

Dalla parte del Vaticano, ciò che deve essere affrontato è il grado in cui Nostra Aetate e la trasformazione dell’insegnamento cattolico vengono trasmessi dall’alto in basso. Ciò dipende naturalmente dal contesto sociologico ma, se la Santa Sede decidesse, per esempio, di promuovere una campagna in America Latina – specialmente ora con un Papa latinoamericano – per assicurare che gli insegnamenti del Magistero sugli ebrei e l’Ebraismo diventino parte della preparazione e formazione nei seminari e nell’educazione cattolica, ciò potrebbe avere un enorme impatto». 


Qual è il suo commento riguardo all’Accordo comprensivo che la Santa Sede ha firmato a giugno con lo Stato di Palestina? 

«In merito a questo Accordo che la Santa Sede ha firmato con l’Autorità Palestinese, capisco che si sia parlato di Stato di Palestina perché molti paesi già lo fanno. Il governo israeliano non è contento di ciò ma questa è una questione politica e si può concordare di avere posizioni differenti sulla terminologia politica. La sostanza è che si tratta di un accordo molto importante per la Santa Sede con l’Autorità Palestinese perché conferma la libertà religiosa e i diritti della Chiesa in una società che si è già proclamata essenzialmente governata dalla legge islamica, come si legge nel documento di creazione dell’Autorità Palestinese. Avere quindi l’Autorità Palestinese che acconsente ad un documento nel quale afferma l’integrità delle comunità cristiane e i loro diritti di libertà di culto, di educazione e di comunicazione, è un gran risultato.  

Infatti, Israele dovrebbe applaudire a questo documento perché esso non solo protegge le comunità cristiane ma, affermando i principi del pluralismo religioso, Israele dovrebbe essere in grado di aspettarsi che l’Autorità Palestinese li onori anche riguardo alla diffamazione dell’Ebraismo che avviene regolarmente nelle moschee e sui media palestinesi. Se è stato concordato ora che il Cristianesimo deve essere rispettato, dovremmo chiedere che ciò avvenga anche per l’Ebraismo». 


Poco più di un anno fa, lei si trovava nei Giardini Vaticani pregando per la pace insieme al Papa e ad altri leader religiosi e politici. Quanto crede che la preghiera svolga un ruolo in questo contesto? 

«Un aspetto della questione riguarda qual è il valore della preghiera in sé mentre un altro concerne il valore dell’iniziativa di Papa Francesco. Ovviamente, da credente religioso, credo nel potere che ha la preghiera, innanzitutto, di trasformare la persona che prega. La parola ebraica per preghiera è l’uso riflessivo del verbo “giudicare”, hitpallel, che significa “giudicarsi”. Questa parola può provenire anche da una radice che risale non tanto al giudizio ma allo stupore. Si tratta sempre, comunque, di un verbo riflessivo: significa avere un effetto su se stessi, giudicarsi, riflettere sulle proprie azioni e valori, soprattutto riflettere sulla Creazione fisica e spirituale di Dio, essere pieni di meraviglia di fronte alla presenza di Dio. Indica quindi, soprattutto, qualcosa che uno fa nei confronti di se stesso ma, come in ogni altro aspetto della vita, se si agisce in maniera convinta, si può avere un effetto su chi è vicino e, certamente, si può essere fonte di ispirazione per gli altri.  

Nella tradizione ebraica, pregando testimoniamo la presenza di Dio e il suo amore nella società umana attraverso il modo in cui ci relazioniamo gli uni agli altri perché, se ogni essere umano è creato a immagine di Dio – come sia l’Ebraismo sia il Cristianesimo insegnano – allora se non amiamo il nostro prossimo, non amiamo davvero Dio. Quindi, mostrare che rispettiamo genuinamente le nostre rispettive diversità e, specialmente, le diverse religioni è un modo di amare Dio e di mostrarGli che Lo amiamo riunendo le persone. Da questo punto di vista, un incontro di preghiera è molto importante. 

L’idea di riunire israeliani e, non solo palestinesi, ma arabi musulmani e cristiani insieme, è una delle cose più importanti da fare. Se gli ebrei, i cristiani e i musulmani possono essere visti vivere insieme in pace in Terra Santa, gli effetti globali sarebbero notevoli. Sono quindi felice che Papa Francesco abbia dato particolarmente importanza a questo e che abbia invitato insieme i leader e i rappresentanti religiosi israeliani. Spero che Papa Francesco non rinuncerà a questa iniziativa e che la prossima volta ciò venga realizzato anche con chi ricopre in quel momento una posizione di potere politico o si trova in collegamento con le strutture del potere e non con coloro che sono figure puramente rappresentative e che non hanno impatto sulla realtà politica perché, in quel caso, l’iniziativa non avrebbe conseguenze politiche».


Può condividere con noi una preghiera per la Terra Santa e i suoi abitanti?  

«La prenderò dal salmo 122. Ci sono due versi molto interessanti in quel salmo. Un verso è molto famoso: “Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano.” Questo versetto sembra essere piuttosto contraddittorio perché, se si guarda alla storia di Gerusalemme, coloro che l’hanno amata, non hanno prosperato. Non c’è probabilmente stata nessuna città sulla quale siano state versate più lacrime e sparso più sangue. Quindi, cosa significa? C’è un verso precedente che lo spiega: “Gerusalemme è costruita come città salda e compatta”. I rabbini del Talmud hanno detto che una città salda e compatta significa una città che unisce le persone. Ciò era stato chiaramente preso dall’antica immagine del pellegrinaggio nel quale gli Israeliti delle differenti tribù salivano a Gerusalemme insieme come un simbolo dell’unità nella diversità.  

Il vero messaggio della pace di Gerusalemme è l’unità nella diversità. Quando cercheremo la pace di Gerusalemme, l’unità fra ebrei, cristiani e musulmani, o il rispetto dell’attaccamento di ognuno di noi a questa città, sarà allora che davvero prospereremo. La preghiera deve essere per la vera pace di Gerusalemme». 


Intervista a cura di Elena Dini


(12 dicembre 2015)